Quando andiamo a fare shopping con una nostra amica non pensiamo a tutto quello che c’è dietro ad un capo d’abbigliamento o ad una borsa e magari ci lasciamo attrarre da offerte allettanti che ci propongono un prodotto moda che segue i trend del momento ad un prezzo stracciato. In quel momento pensiamo solo di aver fatto un affare ma non abbiamo fatto altro che alimentare un’industria nociva per noi e per il nostro pianeta, molto distante da tutto quello che è la moda responsabile, infatti dietro ad un semplice maglioncino di bassa qualità e di basso costo ci sono materie prime altamente impattanti per l’ambiente e persone costrette a lavorare in condizioni pessime, dei quali una grande parte sono dei bambini.
Nei paesi orientali, come il Bangladesh ad esempio, in qualsiasi fabbrica tessile è normale trovare operai bambini, strappati alla loro infanzia e costretti a lavorare per un’infinità di ore, senza alcuna norma di igiene o di sicurezza e per una paga finale davvero avvilente.
Nel mondo di oggi sono circa 150 milioni i bambini-schiavo che lavorano ed hanno impieghi più o meno faticosi, bambini a cui è stato negato il diritto all’infanzia e precluso, quindi, quello ad un futuro.
Secondo il rapporto ILO sullo sfruttamento minorile, sono 74 milioni i bambini impegnati in lavori ad alto rischio a contatto con sostanze, macchinari ed attrezzi pericolosi e l’industria tessile e dei capi di vestiario è un settore dove viene particolarmente sfruttato il lavoro minorile e che assume una certa importanza perché riguarda la nostra vita di tutti i giorni.
Tra i tanti volti e le tante storie che possiamo leggere e vedere nei documentari, ci sono ad esempio quelle delle giovani donne e bambine assunte secondo lo schema dello “Sumangali”. Secondo questo sistema, le donne che lavorano nei telai vengono letteralmente rinchiuse tra i 3 ed i 5 anni all’interno delle fabbriche, con ritmi di lavoro estenuanti e paghe da fame. Paghe che vengono poi erogate dai “datori di lavoro” alla fine del contratto e che, spesso, vengono utilizzate come dote per il matrimonio.
I più grandi marchi della moda sono soliti delocalizzare in paesi come India, Pakistan o Bangladesh per abbattere i costi di produzione e, talvolta, sfruttare legislazioni sul lavoro molto più elastiche e permissive di quelle dei paesi industrializzati. La delocalizzazione è sfruttata soprattutto dai marchi che propongono capi low-cost e che puntano al mercato del Fast Fashion, nel quale il design dei capi di abbigliamento passa molto rapidamente dalle passerelle al mercato, con la particolarità ed il pregio di essere accessibile a tutte le tasche. I consumatori sono diventati sempre più propensi a disporre di una maggiore varietà di prodotti e sempre più allettati dalla soddisfazione derivante dall’acquisto di prodotti a basso costo e all’ultima moda. I produttori, invece, hanno dovuto adattarsi ad avere catene di produzione sempre meno costose e più veloci, favorendo una competizione sfrenata, la compressione salariale e – malgrado l’esistenza di leggi a protezione dei minori – la schiavitù minorile.
Lo sfruttamento della manodopera minorile altro non è, infatti, che un sottoprodotto della povertà. Possiamo anzi dire che, se è vero che la povertà genera sfruttamento dei minori, anche lo sfruttamento dei minori non sradica la povertà. Se togliamo gli adolescenti ed i bambini dalle scuole, l’ovvia ricaduta a lungo termine per quei singoli altro non sarà che il mantenimento di uno standard di vita basso, senza possibilità di mobilità sociale e con la condanna ad uno stato di semianalfabetismo per il restante corso della propria vita.
Nella Giornata Mondiale contro il lavoro minorile il simbolo è Zohra, la bambina pakistana di 8 anni uccisa dai suoi datori di lavoro per la sola colpa di aver liberato i pappagalli dalla gabbia. Ma di Zohra nel mondo ce ne sono 152 milioni: bambine e bambini costretti a lavorare, sfruttati e a volte torturati e uccisi come la piccola Zohra. Con la pandemia la situazione rischia di peggiorare secondo il report Ilo-Unicef presentato a Ginevra.
Dopo 20 anni di progressi, per la prima volta rischiano di crescere di nuovo il lavoro minorile, come effetto della crisi Covid-19. Secondo il report dell’International Labour Organization (Ilo) e Unicef «According to COVID-19 and child labour: A time of crisis, a time to act», il lavoro minorile è diminuito di 94 milioni di casi dal 2000 ma l’avanzamento ora è compromesso: i bambini che già lavorano rischiano di lavorare per più ore o in condizioni peggiori, spiega il report. La maggior parte potrebbe essere costretta a svolgere i lavori peggiori, che causano danni alla salute e alla sicurezza.
«Non appena la pandemia provoca un effetto devastante sui redditi delle famiglie, senza supporto, molti possono ricorrere al lavoro infantile» spiega il direttore general dell’Ilo, Guy Ryder. «La protezione sociale è vitale in tempi di crisi, dal momento che fornisce l’assistenza ai più vulnerabili. Integrare le preoccupazioni per il lavoro minorile in politiche più ampie per l’educazione, la giustizia, il mercato del lavoro, i diritti umani fa la differenza».
Secondo il report, un punto percentuale di crescita della povertà induce almeno un +0,7% di aumento del lavoro minorile in certi paesi. «In tempi di crisi il lavoro minorile diventa un meccanismo di coping per molte famiglie - spiega la direttrice dell’Unicef r Henrietta Fore. - Appena la povertà cresce, le scuole chiudono e diminuiscono i servizi sociali, molti bambini vengono spinti a lavorare».
Ci sono sempre più evidenze che il lavoro minorile aumenta con la chiusura delle scuole che, durante la pandemia, ha riguardato più di un miliardo di studenti in 130 paesi. Quando le scuole ripartiranno, non tutti i genitori potrebbero permettersi di mandare i figli a scuola. Bambini e ragazzi che potrebbero essere spinti in lavori pericolosi e in condizioni di sfruttamento. Le disparità di genere possono crescere in modo serio, con le ragazze particolarmente vulnerabili allo sfruttamento in agricoltura e nei lavori domestici, spiega il report.
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